Domenico Russo

2017

BAD STORIES

Francesco Diotallevi è l’artista della consapevolezza, dell’ironia e del coraggio. Formatosi nel concettuale e nell’informale d’area bolognese, rompe con queste tradizioni per impiegare la pittura come narrazione della vita, nei suoi aspetti ironici e tragici, soprattutto tragicomici. Nei lavori raccolti in Bad Stories si vede come sfrutta la potenza di una comunicazione sarcastica per capovolgere il reale, opponendogli frames in cui strampalati personaggi obbediscono a un gioco superiore, nelle loro linee scure, su colori accesi e accattivanti. Una piattaforma bidimensionale senza prospettiva è lo spazio iconico, dove esseri umani o animali perdono il loro senso in continui scivolamenti d’identità, talvolta incespicando verso la propria fine e raggiungendo, in ultimo, la loro forma definitiva. Un salto da una superficie piatta priva di profondità, spogliata dell’illusione della terza dimensione, da cui il soggetto, l’ambiente e il supporto raggiungono una forma disincantata del mondo, una condizione simbolica di parità da cui hanno inizio i racconti di Diotallevi.

Sono opere irresistibili, caramelle gommose a forma d’orsacchiotti di mille colori, giuggiole dal sapore vagamente e sorprendentemente amaro da far increspare il volto per l’acre gusto dell’esistenza che sprigionano in bocca. Non alcuni dei tanti placebo che ogni giorno ingoiamo sterilmente, ma la pillola rossa per l’accesso alla stasi della riflessione, contro l’immediatezza del linguaggio della mercificazione privo di contenuti. Con l’utilizzo e la messa a nudo di alcune regole trappola del sistema comunicativo pubblicitario, dopo la prima fase di fascinoso divertimento, Diotallevi stimola il ragionamento avviando la seconda fase, quella d’ingresso nel processo d’elaborazione del pensiero dell’osservatore, perché solo svolgendo i simboli dell’opera, essa si completa sublimandosi nella mente di chi vi approccia.

Sono storie e sono giochi, sono tele e sono itinerari lungo i quali i soggetti viaggiano fino agli occhi e dallo sguardo alla mente grazie a un linguaggio personalissimo strutturato con la grammatica universale dell’ironia con la quale Diotallevi spezza i codici genetici di un’arte per addetti ai lavori, per dare vita a un crossing-over estetico segreto, un missaggio sottile di stili per una rappresentazione immediata degli inciampi della vita. Al di là della forma estetica e di quella scherzosa, troviamo una società spinta al limite, una dentro cui l’identità è disciolta in una condizione di diluizione che l’artista distilla in una pura pittura ironica, con contorni scuri, pieni e sinuosi che mai lasciano che della figura si contamini la sua stessa consistenza. Sono linee spesse, non di labirinti concettuali dove l’individualità si smarrisce inseguendo subdole reclames, né tanto meno linee che ingabbiano, bensì avvolgimenti che conservano l’integrità di un’esistenza carica di quel peso fluorescente che la rende unica. Diotallevi però non si ferma e avanza nei suoi intenti scoprendo i pericoli cui l’individuo è sottoposto. Senza fare differenza asfalta i suoi eroi, il gatto e il topo, Tinky Winky, Zorro, uno sceriffo. Spiaccicati sulla strada insieme a essi s’intravede la presenza di una morale sbriciolata. I resti di una storia che ha preso una brutta piega, una bad story che sferra attacchi subliminali all’uomo moderno, lo schiavo del consumo compulsivo inappagabile, colui cui direttamente e velatamente Diotallevi rivolge il proprio cinismo ammonendolo sull’attuale precarizzazione della vita.

Opere che allo stesso tempo distraggono dall’angoscia storica con la forza del sorriso, perché leggerezza e consapevolezza vanno di pari passo con la libertà. Quella che più ci manca, la libertà di scegliere di essere ciò che si vuole essere; con l’ironia le apparenze del mondo vaporizzano la loro illusione, si spogliano del loro costume e vengono sovvertite. Le certezze non reggono. Il cacciatore è un caro amico del lupo e chi ci lascia le penne è Cappuccetto Rosso; i ciclopi sono quieti signori in maglioni a rombi, miopi con occhiali a una lente, piacevoli magari per berci un te e leggere il giornale; Dafne, la ninfa trafitta dalla freccia respingente di Cupido, non ha di fronte il dio del Sole e delle arti che la brama selvaggiamente, ma l’Apollo Creed del film Rocky pronto per il match. È un gioco pericoloso, quindi, con cui Diotallevi riedita la realtà in varie sequenze narrative sferzanti e minimali. E lo fa con la lentezza meditativa del dipingere, facendo vacillare le sicurezze dei luoghi comuni fondativi di una vita troppo vuota e di un arte troppo spesso fintamente profonda. Ecco la mistificazione del reale, di un mondo pubblicitario super estetizzato, un mondo cool che massimizza esteticamente ogni aspetto depauperandolo di ogni contenuto ideologico. E farlo nel modo giusto vuol dire apparire belli, immediatamente apprezzabili, quando in realtà questa è la parte più difficile da realizzare perché dietro l’apparenza c’è la sostanza. Diotallevi riesce con accortezza ed esperienza a celare, in Bad Stories, il suo atto ribelle, per capovolgere il reale con processi di messa alla berlina e di sottrazione, che riducono le vicende all’essenziale, appunto a un’essenza che diventa simbolo per ogni cosa. In tutti noi, precipitati negli schemi della proliferazione delle immagini prive di contenuti, questa mostra suscita il senso di un guardare diverso, divertito prima di tutto, poi profondo e soprattutto mai indifferente; ogni quadro è un’apertura, una finestra colorata e soleggiata sempre spalancata sul mondo, un punto d’osservazione fresco con cui Diotallevi offre rifugi dove distrarsi, isolarsi ma anche ripartire con una nuova consapevolezza.