Christina Magnanelli

2015

#AImagazine – THE ART REVIEW

POP DI SINTESI

Una cultura pop, sintetica, al limite del cinismo. Francesco Diotallevi è uno di quegli artisti che, consapevolmente, ritorna a scrivere su tela, ritornando a raccontare storie attraverso segno e colore. Un atto di resistenza, tenacemente aggrappato alla storia.

«Immagina di prendere un libro e strappare una pagina.»

Si d’accordo e poi con questa pagina cosa faccio? E da quale libro proviene questo pezzo di carta?

«Nella maggior parte dei casi sono delle narrazioni, estrapolate da uno storyboard: mi immagino realmente la storia, sono pezzi di un racconto più ampio. L’uccellino che si è schiantato sul parabrezza della macchina è una storia vera, direttamente o indirettamente viene tutto fuori dalla vita quotidiana. È la vita quotidiana che ti offre la possibilità di essere ironico. Anche se devo ammettere che spesso attingo dalle fiabe, creando uno squilibrio tra bene e male, ribaltando i ruoli. In qualche caso mi sento il giullare che deride il re.»

L’ironia come filo rosso. Come traduzione di qualcosa che è successo, anche qualcosa di banale, come prendere il pane dal fornaio o accarezzare il proprio cane. Sta tutto nel rimescolamento narrativo.

«L’ironia è necessaria perché scardina un insieme di sovrastrutture, io sono un guastafeste, ma che vuole dare una chiave di interpretazione. La mia ironia sfocia in qualcosa al limite del cinismo, in un messaggio caustico. Anche se l’accusa di sadismo mi è stata rivolta spesso.» Francesco Diotallevi. Probabilmente pop, non tanto nell’intreccio narrativo, ma nelle dinamiche compositive. La sua produzione vede la tela come sfondo preferenziale, ma è un segno facilmente esportabile su un muro, su un adesivo da attaccare alla macchina o al frigorifero; il tempo della percezione è ridotto al minimo. La grammatica usata rende immediato il contatto con la materia, con il succo del racconto.

«Ci sono molti modi di dire fuori piove, io voglio usare il modo più rapido e più immediato possibile. Il mio è linguaggio sintetico. Ho bisogno di essere veloce da un punto di vista comunicativo. Tinte piatte, chiare e segno marcato. Non c’è prospettiva perché implicherebbe un grado di attenzione maggiore. È un linguaggio segnaletico.»

Scrittura che oltre alla tradizione pop o fumettistica, si avvicina a quell’universo social che vede la sostituzione di una parola, un aggettivo o, addirittura, un’intera frase, con un’immagine. Gli emoticons nella comunicazione quotidiana visualizzano un nostro stato d’animo, senza passare per la parola scritta, omettendo verbi, aggettivi, pronomi. È una forma di sottrazione, non credo si possa parlare di semplificazione. Anzi il racconto diventa più complesso, si arricchisce di una forma comunicativa che oltrepassa la parola scritta, che la sostituisce, creando una sintassi meticcia, sporca, frastagliata. In qualche modo Diotallevi si inserisce in questa rivoluzione della scrittura, ma, come spesso succede nella sua opera, ribaltandone il significato o la percezione.

«I personaggi sono necessariamente graziosi, devono avere un impatto empatico e diretto. Dietro l’accoglienza dell’immagine c’è la mia risata sarcastica. Un confettino dolce che ti farà stare male.»

Ecco lo scarto. L’uso che, nella maggior parte dei casi, si fa degli emoticons è finalizzato all’enfatizzazione del messaggio e all’immediatezza necessaria in una comunicazione via sms o chat varie. Diotallevi utilizza gli strumenti messi a disposizione dalla scrittura social, ma in realtà dilatandone i tempi. Il confettino viene messo in bocca al fruitore come fosse qualcosa di innocuo, con una velocità di somministrazione che svia qualunque riflessione aggiuntiva sulla sostanza ingoiata. Ed è il tempo, in questo caso d’osservazione o di metabolizzazione del segno, che innesca il meccanismo d’accessione della pillola. La comunicazione è immediata e veloce, ma è un inganno accuratamente meditato per evitare un iniziale rifiuto, una contrapposizione che eviterebbe l’assimilazione del racconto o di quello che rimane. Di quella pagina strappata, di quel residuo di favola rovesciata che non permette al lettore di avere il controllo sull’intreccio della storia, perché si tratta di un solo frammento, di un pezzo di percorso, diligentemente ritagliato. Un brandello di racconto che crea una devianza, una possibile fuga dai dettami prestabiliti dal narratore stesso. «Per cercare strade diverse è necessario avere un atteggiamento mentale divergente, divergente da quel qualcosa che possiamo chiamare struttura, norma. Forse si potrebbe parlare di anarchia intellettuale; non so se è il caso di usare questo termine, sono dubbioso. »

Credo il termine anarchia non sia del tutto inesatto, considerando l’etimologia della parola stessa: assenza di un leader. Se l’opera di Diotallevi è veramente una pagina strappata, questa si sottrae alla dittatura della struttura complessa del romanzo, per acquistare vita propria, in balia degli accadimenti che gli gravitano intorno. Una pagina orfana, ma che in se racchiude una memoria famigliare: «credo che l’evoluzione della specie non passi per il gruppo, ma da chi perde l’orientamento, in natura non è il muoverci in branco che ci salva. La salvezza è perdersi e secondo me la solitudine aiuta.»

Una solitudine che stimola controdifese, le stesse di cui si arma l’opera di Francesco Diotallevi: una divaricazione temporale, l’immediatezza della comprensione contrapposta alla lenta diluizione del confetto. Forse una metafora dell’evoluzione stessa, o più semplicemente di quel briciolo di cinismo che ci permette di sopravvivere e qualche volta ridere.